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Quattro chiacchiere con Franck Thilliez

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Articolo di francesca colletti
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61 visualizzazioni - pubblicato il : 30-09-2011

Incontro Franck Thilliez lo scorso lunedì nel bar di un grande albergo milanese. È una bella mattinata di sole. Mi aspetto un tipo un po’diverso da quello che invece ho di fronte: un uomo minuto, dal sorriso simpatico, leggermente timido. Gli chiedo di parlarmi un po’di lui, mi dice di abitare nel nord della Francia, di avere una formazione scientifica: «informatico per dieci anni e scrittore da altrettanti dieci. Ho smesso di lavorare 4 anni fa, ho scritto nove romanzi in totale e ho 38 anni».
Mi racconta anche che la sua passione per la scrittura è nata in concomitanza con quella per il cinema: «a furia di vedere storie nei film, ho sentito il bisogno di scriverne di mie. Poi ho avuto due grandi maestri: Agatha Christie, che mi ha insegnato ad inserire nelle mie storie il metodo scientifico, e Stephen King, che rappresenta il mondo fantasioso immaginifico».

Iniziamo a parlare del suo nuovo romanzo: L’osservatore (Casa Editrice Nord, p. 426, €18,60), che è già un successo come i suoi due precedenti in effetti, La macchia del peccato (il suo primo in assoluto, pubblicato in Francia nel 2004 con il titolo Train d’enfer pour Ange rogge) e Foresta nera.
Un thriller che è stato ispirato dalle ricerche sulla storia della psichiatria fatte per un altro romanzo (Fractures, inedito in Italia): «mi sono imbattuto per caso su un evento accaduto a un certo numero di orfani in Canada negli anni Quaranta. Parallelamente, ho fatto ricerche sul cervello e sull’impatto delle immagini sul comportamento umano, perché sono affascinato dai meccanismi della mente».
Un romanzo, L’osservatore, che in effetti è un mix di scienza, eventi reali e una detective story: «sempre durante le ricerche sono incappato in un articolo sulla Sindrome E, nel quale si spiegava come la trasformazione di gruppi di individui non violenti in assassini ripetitivi sia stata un fenomeno ricorrente nella storia. Più volte infatti gruppi di individui hanno violentemente attaccato e ucciso membri innocenti della comunità (basti pensare ai conflitti civili in Ruanda, allo sterminio di armeni e ebrei, e molti altri ancora). Questi eventi non sarebbero successi senza senza un’effettiva trasformazione nel comportamento degli individui. E l’uniformità e la natura ripetitiva di questa trasformazione suggeriscono una sindrome comune che colpisce gli individui, la Sindrome E appunto. Non bisogna dimenticare poi che negli anni Cinquanta, soprattutto durante la guerra fredda, venivano condotti esperimenti per il controllo della mente attraverso le immagini. Cia e Kgb portavano avanti esperimenti del genere utilizzando cavie umane, costringendole a guardare immagini violente per determinate ore al giorno per vedere la loro reazione a questa esposizione. Ho pensato che questo fosse un ottimo soggetto per il mio romanzo».
Parliamo del genere noir e non mi meraviglio quando Thilliez mi conferma che in Francia ha una funzione sociale: «tutto è cominciato da Jean Patrick Manchette, l’inventore del polar francese, da allora gli autori hanno cercato di puntare il dito su ciò che non funziona nella società, ognuno a modo suo, cercando di far riflettere e intrattenere contemporaneamente. Il mio punto di vista è quello prettamente scientifico: attraverso le storie che racconto cerco di portare il lettore a capire cosa succede nella mente umana e trasmettere questa conoscenza al lettore».

Ne L’Osservatore tornano due personaggi cari a Thilliez: Lucie Henebelle e Franck Sharko. Lui, sempre più imbottito di psicofarmaci per affrontare i sui fantasmi, lei intraprendente, ma problematica. Personaggi differenti, ma accomunati da una zona d’ombra. Thilliez fa dire a Lucie: “ci siamo conosciuti nella sofferenza, senza sofferenza non ci saremmo mai incontrati”. «Proprio questa zona d’ombra consente ai due di funzionare bene: ad accomunarli è un destino di sofferenza che cercano di superare per sopravvivere». E poi continua: «Lucie mi assomiglia molto, siamo entrambi attratti dalle grandi figure del male, siamo ossessionati dal sapere perché esistono sulla terra incarnazioni del maligno».
Si ferma, ne avevo prevista un’altra di domanda, ma avevo bisogno di sapere di cosa avesse paura uno come lui. Mi guarda e ride un pò imbarazzato, gli dico che può anche rispondere che ha paura dei ragni, se preferisce o se non vuole esporsi troppo. Invece mi confessa: «La mia paura più grande è il vuoto. Al momento mi spaventa anche la crisi economica, ma è una paura diversa. E ho anche molta paura dei ragni». Sorride. Cambiamo discorso e parliamo di nuovo di cinema, mi racconta che in ogni suo romanzo cerca di usare una scrittura che sia evocativa e tagliata come una sceneggiatura. Cosa che gli risulta facile perché continua a lavorare come sceneggiatore per la tv in Francia: «un lavoro che mi piace molto perché ciò che scrivo si trasforma realmente in immagini».
Gli chiedo infine di mettersi nei panni di editor che deve dare il suo parere di lettura su L’osservatore, sono curiosa di sapere da lui per quale motivo dobbiamo leggere questo romanzo: «il principale punto di forza è che la storia che si racconta è reale, e dimostra l’onnipresenza della violenza nella nostra società».
Poi riflette un attimo, sorride (forse si era preso troppo sul serio) e continua: «Un thriller ben organizzato e strutturato in maniera intelligente».



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