La sindone del diavolo. Un’indagine di Dante Alighieri
“La sindone del diavolo” è dicitura che in sé ha qualcosa di blasfemo: e Giulio Leoni consegna direttamente nelle mani del sommo poeta Dante Alighieri l’ingrato compito di ricondurre l’ossimoro del titolo a umana razionalità e di visualizzarne la forma (“un drappo con le fattezze dell’essere… L’insieme delle tracce creava un effetto ottico singolare, una sorta di disegno… un effetto che il suo amico Giotto aveva cercato inutilmente di raggiungere nella sua opera, la resa della terza dimensione su di una pittura piana”).
Dante incontra Arrigo VII, l’imperatore “in cui aveva riposto tutte le sue speranze”, e in lui ravvisa “i segni di una grave afflizione… sul volto emaciato come se un demone maligno vi avesse scritto con l’unghia l’esito del suo destino”. Subito dopo questo incontro, l’Alighieri ha occasione di sperimentare il potere miracoloso delle “lacrime del Diavolo” e di ricevere indicazione sulla loro provenienza (“A Venezia, nella città sul mare. Lì si dice che sia giunto da oriente, dalla lontana Bassora, uno speziale saraceno… Egli è l’unico in terra d’Occidente a conoscere il rimedio che può forse salvare Arrigo”). Il vate parte così alla volta di Venezia, disposto a tutto pur di procurare il farmaco che possa guarire l’imperatore.
Dopo un viaggio disseminato di oscuri presagi, il poeta giunge alla volta della Serenissima, che sembra infestata da presenze demoniache (“Il Demonio che si aggira per le calli”): la prima notte alloggia in una locanda metafisica, che non riuscirà più a rintracciare nei giorni successivi trascorsi in laguna (“La locanda del Doge Zanni è l’imbarco delle anime per il regno dei morti”), partecipa a conciliaboli segreti, assiste a una scia di delitti efferati e finalmente riesce a rintracciare lo straniero che dovrebbe possedere il portentoso fluido: una quintessenza distillata con i poteri occulti dell’arte esoterica. Per scoprire che il Demonio altro non è che… la sete di potere dell’uomo? Un intrigo politico? La volontà di potenza?
Almeno tre sono le dimensioni rilevanti in quest’opera.
La prima: l’atmosfera diabolica e misteriosa che regna sulla città lagunare (“Dicono che sia il diavolo a suonare il liuto, nelle notti di luna sui ponti di Venezia”).
La seconda: la figura del poeta-investigatore, che viene rappresentato nella sua veste di esule, di essere umano contrastato tra gli istinti terreni suscitati dalla prostituta Giacometta e il desiderio di elevarsi al di sopra degli stessi (“cedere così alle lusinghe della carne con una giovane che avrebbe potuto essere sua figlia”), di insolito combattente che non disdegna l’azione (“Dante ne approfittò per colpirlo con forza alla fronte con il manico della daga”).
La terza: la ricerca poetica di Dante. Il divin poeta ha pressoché concluso “l’Inferno”, ma si trova a fronteggiare quella che oggi chiameremmo l’impasse creativa di fronte al dilemma: come rappresentare il Demonio (“Che volto dare al Male che corrompe gli spiriti grandi?”)? “Adesso sapeva quale sarebbe stata la forma di Lucifero, quella che avrebbe cantato nei suoi versi… il volto di un assassino che aveva spento infinite vite e con esse le speranze di un impero”.
Un romanzo interessante anche per le allegorie (figure del resto compatibili con il periodo medioevale), per il linguaggio attagliato all’epoca narrata e per i riferimenti storici e culturali, che possono rendere la lettura non sempre immediata o facilmente accessibile.
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