Faccia a faccia con Lorenzo Calza
Un treno entra in una galleria e, misteriosamente, non ne esce più. Un trentenne, precario, con le sue ambizioni frustrate. Nello scompartimento siedono altre persone: una ragazza, un tizio distinto e taciturno piegato sul portatile, un anziano, tre studenti e una famigliola di Rom. Col passare del tempo, tutti realizzano che qualcosa non va. Il buio che circonda il treno diventa dramma. Terrorizzato, l’anziano si sente male e muore. Gli altri si rendono conto che il vagone è bloccato, sono isolati dal resto del convoglio. Da qui inizia un precipitare, con la piccola comunità costretta a interagire per organizzarsi, razionalizzare le risorse e provare a uscire da quell’incastro. Riusciranno a forzare la porta intercomunicante. Il viaggio nel ventre del treno – che scoprono essere vuoto – si trasforma in un vero e proprio incubo; ogni evento precipita, compresi i rapporti interpersonali.
Il viaggio, il luogo chiuso, il buio sono tutte metafore ampiamente usate, tu che taglio hai voluto dare a questa storia?
Un taglio realistico, paradossalmente, da scomporre poi. Il classico “What if? Cosa succederebbe se?”. Cosa succederebbe se un normale viaggio in treno si trasformasse in un abisso. Beh, sarebbe l’abisso del nostro Paese, del nostro tempo, delle caratteristiche del nostro vivere.
In copertina viene presentato come un thriller, ma tu sfiori sia il thriller, che il noir e l’horror senza che sia possibile incasellare la storia in modo preciso, anche il solo definirlo thriller psicologico potrebbe essere riduttivo se non fuorviante. Tu come lo definiresti?
Un buon romanzo, spero. Giancarlo Berardi, amico e maestro, durante una presentazione l’ha definita una scrittura quasi “vomitata”, sottolineandone l’urgenza, il vissuto profondo. Ma poi, la scuola narrativa da cui provengo è oggettiva. Quindi, dopo aver gettato fuori tutto, mi sono sforzato di controllare, di tenere le redini. Credo che la migliore narrativa di questo genere – Matheson, Serling, Vonnegut, Buzzati – scaturisca da un mix tra l’anima buia che si scatena, un cuore che guida e un cervello che giudica. Mai quello dello scrittore, ma quello dei personaggi.
Il ritrovarsi in un luogo costretto, chiuso, senza possibilità di fuga, comunicazione o approvvigionamenti, porta sempre alla regressione a istinti primordiali e animaleschi? Ci mette così poco l’uomo a scordarsi secoli di educazione e civilizzazione?
Ho appena scritto una scena di Julia (il fumetto della Sergio Bonelli Editore per cui lavoro) in cui lei spiega agli studenti di criminologia l’esperimento di Philip George Zimbardo, lo psicologo americano che rinchiuse un gruppo di studenti del suo corso nei sotterranei dell’università di Stanford, dividendoli in guardie e prigionieri. Ricreò la dinamica del carcere, in una specie di reality ante-litteram. La dimensione del gioco si esaurì in pochi giorni, andate a documentarvi su come finì. Altroché film horror!…
In un capitolo de libro si assiste a un dialogo surreale tra un personaggio della cultura italiana e un personaggio dei cartoni, perché questo strano accostamento, qual era l’intento?
Pier Paolo Pasolini e Homer Simpson, non ho problemi a svelare l’arcano. L’intento era che quel dialogo fosse tutt’altro che surreale. Un confronto preciso e ficcante tra i due, non solo tra quello che rappresentano. Se la domanda implicita è: cosa c’entra con la trama? Rispondo che per me è il punto più avanzato, più sofisticato del romanzo. Quello in cui, tramite espediente, il romanzo irrompe nella realtà storica, nel suo traffico dei significati.
Ho avuto l’impressione che i personaggi che tu riunisci nel vagone siano sì diversi, ma in fondo rappresentino anche tutti gli aspetti, le sfaccettature di una sola persona, come fosse un unico personaggio frammentato, la sua evoluzione. I ragazzini, gli adulti non ancora realizzati, l’uomo arrivato, il vecchio e poi il diverso, l’altro, rappresentato dai rom. E’ come se in quel vagone fosse rinchiuso non solo il nostro paese ma anche un io molteplice.
Bella analisi, non ci avevo pensato. Il fascino di Panico credo stia in questo meccanismo “aperto”, in cui ogni lettore rintraccia cose diverse, differenti livelli di lettura e stimoli, a seconda della sua visuale, della sensibilità. Nei dibattiti, nei riscontri, è emerso. Quel treno non lascia indifferenti, penetra, arriva. “Un romanzo che mentre lo divori ti divora”, ha scritto una lettrice. Mi è piaciuta, come definizione.
Hai inserito anche riflessioni sulla realtà del nostro paese, un libro per te è sempre un’occasione di riflessione, denuncia, critica della realtà o può essere anche solo svago, senza dover per forza lanciare un messaggio?
Mi sfugge il concetto di “solo svago”. Il lettore non cerca mai “solo svago”, cerca anche senso, emozione. Altrimenti farebbe altro, andrebbe a farsi una corsetta, una partita con la Playstation, o un giro al parco. L’importante è essere equilibrati, onesti, e togliersi di mezzo il più possibile. La realtà, o la surrealtà, contengono sempre messaggi, te li lanciano in faccia. I romanzi raccolgono, e restituiscono in forma rielaborata. L’impegno civile, nella sua pienezza, poi, dovrebbe tornare di moda, in questo periodo pieno di indignazione un po’ nichilista.
Sei anche sceneggiatore dei fumetti “Julia” e “She”. Quali sono, se ci sono, le difficoltà di scrivere dal punto di vista femminile?
“Mimesi”, la parola chiave. Empatia, la formula. Accedere al proprio recondito, il modo. Trovare dentro di sé la parte femminile e tirarla fuori, senza pudore, senza infingimenti. D’altronde, uno che per mestiere deve raccontare di continuo l’altro-da-sé – assassini, serial-killer, ricchi, poveri, grassi, magri, persone, animali, cose, spazio, tempo – non può che cercare tutto dentro di sé, mediato dalla cultura. Altrimenti, trova nulla. La prima curiosità dell’osservatore, forse, è quella interna, introflessa.
Che futuro ha il fumetto in questa era tecnologica?
Lo stesso del cinema, dei giornali, dei media in genere. Bisogna smetterla di farsi irretire o spaventare dalla tecnologia, inutile competere cercando effetti speciali, scorciatoie, di suggestionare il pubblico con espedienti. Siamo mestieri del racconto, la gente insegue sempre qualcosa di caldo, di compiuto, che conforti, divertendo, spaventando, indagando. Nel gelo, si cerca calore. In edicola, ora, stanno ristampando Ken Parker: un western che parla al cuore e al cervello, nell’avventura. Lo consiglio vivamente, per capire cosa intendo. Panico, gira che ti rigira, viene anche da lì, da Ombre Rosse di John Ford. Quella diligenza…”