Cocco&Magella – La firma dell’assassino – racconto inedito
Dopo Fruttero & Lucentini, una nuova coppia del giallo italiano che ha successo anche all’estero
Diritti di traduzione venduti in 10 paesi: Stati uniti, Canada, Inghilterra, Australia, Francia, Germania, Spagna, Albania, Olanda, Polonia
Un commissario donna che supera in simpatia e competenza molti dei famosi “colleghi” del giallo italiano
Una trama capace di conciliare il “noir mediterraneo” alla Izzo e alla Carlo Lucarelli con l’impianto del thriller anglosassone
Un giallo tutto italiano che dalla “Milano da bere” arriva fino all’Expo
Una commistione irresistibile di letteratura di genere e attualità che farà scattare il passaparola tra i lettori.
Cocco&Magella autori di “Omicidio alla stazione centrale” regalano ai nostri lettori un racconto inedito e invitano a partecipare al loro contest:
Da domani per 5 giorni solo su Milanonera leggete l’incipit scritto dagli autori e completatelo in forma di racconto, in un numero massimo di 8.000 caratteri, spazi inclusi.
I 5 racconti più belli, a giudizio insindacabile degli autori, vinceranno 5 copie fuori commercio del romanzo “Omicidio alla stazione centrale”
Domattina su Milanonera tutti i dettagli per partecipare.
Racconto inedito:
La firma dell’assassino
(The signature)
Nel linguaggio internazionale della Criminologia, codificato per la prima volta all’interno del CCM (Crime Classification Manual), il termine “Signature” (“Firma”) designa “un comportamento statico, ripetuto in ogni scena del crimine, non necessario all’esecuzione del medesimo e rispondente a dinamiche profonde dell’offender. La firma di un omicida può consistere, per esempio, in rituali, torture, e mutilazioni inflitte, nell’utilizzo di particolari tipi di costrizione fisica o armi.
(M.Picozzi, A. Zappala, Criminal Profiling)
Il giorno in cui tutto cominciò, a Bellagio c’era il sole.
Di fronte all’imbarcadero i turisti si erano radunati in attesa del traghetto. Il Lario, uno dei ferry più belli della Navigazione Lago di Como, aveva appena solcato il tratto che da Cadenabbia conduceva fino alla più importante meta turistica.
Tirava un filo di vento.
Una coppia osservava gli orari esposti sulla bacheca. Alcuni bambini mangiavano un gelato davanti al bar all’aperto. All’interno delle auto, intere famiglie aspettavano coi finestrini abbassati l’arrivo del traghetto. Erano da poco passate le undici quando il personale di terra si diresse verso il pontile.
Ero capitata a Bellagio quasi per caso: Guido, mio marito, era a Milano per sbrigare alcune faccende di lavoro e io avevo deciso di passare il ponte del primo maggio a casa di mia madre, sul lago, dove Camilla, che aveva solo tre anni, mi aspettava. Quella mattina mi ero svegliata presto, ero scesa verso il lungolago a bere il caffè e comprare il giornale.
Da qualche mese vivevamo in una casa in viale Giulio Cesare, a pochi passi dalla Upim. Como era la città in cui io e Guido ci eravamo incontrati. Quel giorno, però, complice l’aria primaverile, avevo deciso di andare a godermi un po’ di sole e di aria del lago.
La strada che conduce a Bellagio sulla sponda interna del lago di Como è tortuosa, e in alcuni punti si restringe a tal punto che è necessario fermarsi per far passare le auto che provengono in direzione contraria. Dal finestrino avevo ammirato gli squarci di paesaggio magnifici a Blevio e poi a Torno mentre, sull’altra sponda, lo spettacolo del lago illuminato dalla luce primaverile lasciava senza fiato.
Quella mattina ero arrivata a Bellagio intorno alle dieci, avevo fatto una passeggiata per le stradine del centro storico e poi avevo ordinato il solito cappuccino in uno dei tavolini all’esterno del Caffè Rossi, proprio di fronte all’imbarcadero.
Intorno alle undici e mezzo, dopo un paio di telefonate di lavoro, mi ero diretta verso il parcheggio, decisa a fare rientro a casa. Avevo fatto il biglietto e mi ero messa in coda in attesa di salire sul ferry.
Quando il Lario aveva attraccato, ero rimasta ad osservare la discesa delle auto e dei turisti a piedi, poi il viavai di persone intorno alla piazza.
È in quel momento che tutto è cominciato.
Dapprima udii la voce della bambina che stava seduta sul muricciolo:
“Mamma, guarda, c’è qualcosa nell’acqua”.
Un istante dopo, l’urlo.
La bambina gridava poi iniziò a piangere mentre la folla, poco alla volta, si accalcava lungo il muretto di fronte all’imbarcadero.
Scesi dalla macchina in preda all’agitazione.
Nel punto in cui il traghetto aveva attraccato, a pochi metri dalla riva , accanto allo scafo del Lario, notai una macchia di colore chiaro e poi una sagoma più scura.
Il personale della Navigazione era indaffarato a tenere lontani i curiosi e io ne approfittai per avvicinarmi.
Ci vollero pochi istanti per rendermi conto che quello che la bambina aveva notato nell’acqua, incagliato allo scafo della motonave, era un corpo.
Il cadavere di una donna di mezza età, bionda, con il viso rivolto verso il fondale.
I carabinieri arrivarono pochi minuti dopo mezzogiorno. Mentre il personale di terra aiutava gli agenti a recuperare la salma mi avvicinai, mostrando il tesserino di riconoscimento.
Stefania Valenti, ispettore di Polizia.
Il ponte del primo maggio terminò in quell’istante.
Perché ero un poliziotto e più di ogni altra cosa amavo il mio mestiere.
***
“Il cadavere di Elizabeth Bennett, 39 anni, cittadina americana, è stato ritrovato nelle acque del lago, vicino all’imbarcadero di Bellagio. La donna, Ricercatrice all’Università di Yale, era in Italia per motivi di lavoro. Sul corpo evidenti segni di strangolamento. Le indagini sono state affidate al PM De Martino. Tutta la procura di Como si sta mobilitando per questo nuovo giallo in terra lariana e mentre serpeggia il timore che possa trattarsi di un killer seriale, alcune indiscrezioni raccontano di presunte divergenze all’interno del pool investigativo.”
Il giorno successivo, dopo aver sfogliato il quotidiano locale, chiesi al commissario Capo di affidarmi l’indagine. Stavo per diventare Commissario, e desideravo misurarmi con dei casi importanti. L’omicidio Bennett , in un certo senso, fu il primo.
Carboni non ebbe nulla da obiettare. Appena arrivata in questura chiamai il medico legale e fissai un appuntamento.
Como, in quella stagione, era bellissima. Il vento aveva spazzato via le nuvole e nell’aria si respirava già il clima dell’estate.
Presi la bicicletta e attraversai il centro storico, diretta verso la sede dell’Istituto di Medicina Legale.
“La ferita intorno al collo è compatibile con un laccio, una cintura, un oggetto flessibile che è stato stretto attorno al rachide della vittima in maniera decisa. Per quello che riguarda il resto non abbiamo nulla: nessuna impronta, stando alle prime analisi. Nessun segno di colluttazione, nessun segno di resistenza.”
“Mi sta dicendo che la donna non ha nemmeno tentato di difendersi?” chiesi.
“Probabilmente non ne ha avuto il tempo.”
“Mi spieghi meglio, dottoressa. Quanto tempo occorre per strangolare una persona in quel modo?”
“Dai trenta secondi al minuto”.
Angela Barozzi aveva trentacinque anni, più o meno la mia età. Una bella donna, a detta dei più. Slanciata, capelli biondi a caschetto a incorniciare l’ovale perfetto del viso, occhi scuri e un sorriso malizioso. Quel giorno, camice a parte, indossava jeans e maglietta. Un paio di scarpe col tacco. La classica donna capace di suscitare le battute maliziose dei colleghi in quello che era un ambiente ancora ancorato a vecchi schemi. Il fatto che fosse single e attraente non faceva che alimentare la fama di mangiauomini. Il che, in realtà, era leggenda metropolitana visto che Angela, come lei stessa mi aveva confessato, non provava alcuna attrazione per i maschi. La conoscevo da qualche anno e, al di là di qualche screzio iniziale, avevamo sempre mantenuto rapporti cordiali. La stimavo. Era una che sapeva il fatto suo. Puntuale. Precisa. Mai una parola di troppo.
“E lei mi vuole far credere che in tutto quel tempo la donna non ha cercato di divincolarsi?”
“È probabile”, rispose, “anzi è sicuro, che l’aggressore sia riuscito a prenderla di spalle. L’unica reazione della donna è stata quella di provare ad allentare la morsa al collo. Graffi sulle mani e sui polpastrelli e unghie distrutte. Aveva delle bellissime mani .”
“Quindi l’aggressore è molto forte.”
“Non necessariamente. Di sicuro è molto abile e ciò che sappiamo con certezza, a giudicare dalla profondità e inclinazione della ferita, è che è alto almeno un metro e ottanta. Forse anche di più.”
Mi guardai attorno. L’Istituto di Medicina Legale mi provocava sempre un certo disagio e le pareti di quella stanza, completamente spoglie, non aiutavano certo a rendermi la visita più piacevole.
“Ma non le ho ancora detto la cosa principale” disse Angela Barozzi con un sorriso che, negli anni, avevo imparato a distinguere.
“E sarebbe?”
“Guardi qui” e indicò un sacchettino di plastica sigillato.
Presi il reperto e lo rigirai tra le mani.
“Una moneta da due euro?”
“Esattamente. Trovato all’interno del cavo orale della vittima.”
“E questo cosa significa?”
“Che l’assassino ha voluto lasciare quella che in gergo definiamo la firma.”
Guardai meglio il sacchetto di plastica.
Una banalissima moneta da due euro.
“Mi dica una cosa, dottoressa” dissi mimando il gesto dell’aggressore. “Se io la afferrassi in questo modo, diciamo con una cintura, lei non avrebbe l’istinto di girarsi, di divincolarsi in qualche modo?”
“Dipende, commissario.” Ridemmo. “Ma si dà il caso che il nostro assassino abbia prima cinto il collo della donna e poi stretto nel giro di poche frazioni di secondo. In parole povere: la donna non ha nemmeno avuto il tempo di accorgersi di avere qualcosa attorno al collo che la morsa era già diventata quasi fatale.”
“E come diavolo è possibile?”
“Grande destrezza, come le ho detto prima. Una certa abitudine, forse. O grande forza, come ha detto lei. Più probabilmente tutte queste cose insieme.”
“Un militare?” chiesi.
“Potrebbe essere” rispose la Barozzi.
Tornai a sedermi, osservando il tavolino con gli attrezzi per l’autopsia.
“Le è mai capitato di avere altri casi del genere in passato?”
“Casi di strangolamento vuole dire?” ribatté il medico legale. “Un’infinità. Almeno cinque o sei all’anno. Solo che questo li batte tutti.”
“In che senso?”
“Sembra l’opera di un artista, se mi passa l’espressione. La perfezione assoluta. Come se per questo aggressore lo strangolamento di un essere umano fosse la cosa più naturale del mondo”.
***
Lucchesi guidava la 147 lungo la strada del lago. Mi ero accomodata sul sedile posteriore, per osservare fuori dal finestrino senza dovermi preoccupare della strada.
Piras sedeva sul lato del passeggero, pensieroso. Non provava grande simpatia per quel collega molto più giovane e scattante di lui arrivato da poco in Questura. Il toscano, a detta di Piras, era uno che non si limitava “a fare il suo”. Non gli bastava eseguire gli ordini. Lucchesi voleva capire ciò che faceva. E Piras non poteva sopportarlo. Erano diversi, ma forse, col tempo, avrebbero lavorato bene insieme. Erano i miei più stretti collaboratori. Una specie di famiglia.
Arrivammo a Cernobbio, poi ci dirigemmo verso la Regina Alta. Elizabeth Bennett, per tutta la durata del suo soggiorno italiano, aveva abitato in un appartamento sulla collina di Moltrasio. Un’abitazione modesta, a mezza costa, con una spettacolare vista lago.
All’ingresso notai il nastro adesivo e i sigilli : la casa era stata posta sotto sequestro.
Il primo caldo primaverile aveva spinto anche i più temerari a rifugiarsi al chiuso di quelle case con i soffitti alti e le pareti di sasso. Case umili o di antico lignaggio, tutte con una lunga storia, perché spesso gli attuali proprietari le avevano ricevute in eredità dalle generazioni precedenti della famiglia.
Il caso della professoressa americana era già un bel rompicapo. La stampa sarebbe andata a nozze con una storia del genere. Ma in quel momento altre domande affollavano la mia mente.
Perché l’assassino aveva scelto proprio la Bennett come vittima? La conosceva? E quando era avvenuta l’aggressione?
Il movente passionale non reggeva. Una storia di quel tipo non stava in piedi. Elizabeth Bennett, stando ai primi riscontri, faceva una vita quasi monacale. Dalle prime ricostruzioni emergeva un quadro di assoluta normalità. Una donna completamente dedita al lavoro e allo studio. Nessun fidanzato, nessun amante. A giudicare dalle informazioni sommarie che avevo raccolto, poi, sembrava che non avesse interesse nei confronti del genere maschile.
Anche lei, riflettei, ma subito ricacciai indietro quel pensiero poco pertinente.
A complicare la faccenda c’erano poi altri dettagli. A cominciare dal particolare che avevo scoperto all’Istituto di Medicina Legale.
Cosa stava a significare la faccenda della moneta infilata in bocca? Perché proprio una moneta? E perché da due euro? Si trattava, come aveva ventilato il medico legale, di un serial killer?
Non avevo mai sentito parlare di una simile “firma”. Men che meno si erano verificati episodi analoghi nelle province di Como e Lecco. E nemmeno nel resto d’Italia, ero pronta a scommetterci. Un particolare del genere non passa certo inosservato. Si trattava, dunque, della prima volta per l’ipotetico omicida?
Scossi la testa.
No.
Impossibile.
Nessun assassino seriale agiva in quel modo. Non al primo tentativo. L’attività criminale di ogni serial killer era caratterizzata da un’escalation, una progressione in termini di efficienza e brutalità.
Molti , spesso, cominciano con dei tentativi. In molti casi le prime aggressioni falliscono. Su una cosa, poi, tutti i manuali e tutte le casistiche convergono. L’attività criminale di un serial killer termina, cioè l’omicida viene arrestato, grazie agli errori, alle tracce lasciate in occasione dei primi delitti. Come a dire: l’abilità di un omicida seriale aumenta man mano che aumenta il numero delle vittime. Non si tratta più di gesti d’impulso ma di movimenti perfettamente calcolati..
Il delitto di Elizabeth Bennett, invece, era diverso.
E il medico legale aveva ragione. Ci trovavamo di fronte a un capolavoro criminale. L’omicida aveva individuato la propria vittima. Aveva agito in pochi secondi. Non aveva lasciato una traccia. Un indizio. Nulla.
Nessuno si era accorto di nulla.
***
Il “delitto dell’americana”, a distanza di anni, rimane ancora un caso irrisolto.
“Archiviato”, secondo la definizione del Tribunale.
Nei mesi successivi all’omicidio Bennett lavorai ininterrottamente per giorni, alla ricerca di un indizio, una prova, qualcosa che potesse mettermi sulla pista dell’assassino.
L’indagine fu lunga e difficile . La vicenda attirò l’attenzione dei media e per settimane, a Como e dintorni, non si parlò d’altro.
Non riuscimmo a scoprire molto.
Rovistammo ovunque, nella vita della donna, tra le sue conoscenze. Parlai con i colleghi e gli amici. Sentimmo decine di persone, senza ricavare nulla. Interrogai i parenti della donna per giorni, invano.
Quando l’indagine venne assegnata a un pool investigativo coordinato dal Pubblico Ministero Arisi, tutte le attenzioni si concentrarono sulle prove scientifiche.
La medicina legale, in Italia a quei tempi, stava cominciando a farsi strada. Ma era ancora ai primi passi. Non esisteva, per esempio , un archivio centralizzato per le tracce del Dna. E le moderne tecniche d’investigazione erano pressoché sconosciute.
Io stessa, per dirne una, quella mattina, di fronte all’imbarcadero, non fui in grado di isolare la scena del crimine. Decine di persone si avvicinarono al cadavere della donna e non potei fare altro che assistere impotente alla folla che si stringeva intorno ai soccorritori. Ero giovane e inesperta.
Ho sempre vissuto il caso Bennett come una sconfitta personale, e i miei guai, in un certo senso, sono cominciati proprio lì. Nel momento esatto della vita, in cui non sono più riuscita a tenere separate vita privata e lavoro. Quando non sono riuscita a mettere un filtro tra gli impegni professionali e la mia quotidianità.
Le cose, con Guido, hanno preso una piega inaspettata. Un anno dopo ci siamo lasciati. Camilla è rimasta a vivere con me. E da lì in avanti, per tanti anni, mi sono dedicata a lei e al mio lavoro.
Sono cresciuta molto, dal punto di vista professionale. Ma se devo cercare un punto di svolta, lo colloco in quella fase. È stato un momento importante.
Quello in cui, per la prima volta, mi sono resa conto del perché avessi scelto di fare quella vita.
La vita del poliziotto.
Una poliziotto donna, per inciso.
Ancora oggi, a distanza di anni, quando mi capita di pensare alla mia vita, e di cercare le ragioni profonde che mi hanno portato prima a intraprendere la carriera in Polizia, e poi a cercare sempre di scoprire la verità nei casi in cui mi sono trovata a investigare, la mia mente va a quel mattino di maggio.
Elizabeth Bennett morì a soli trentanove anni, apparentemente senza un motivo, quando aveva ancora buona parte della vita davanti a sé.
Il suo assassino non è mai stato trovato.
Ma la sua firma è ancora lì, impressa su quella moneta da due euro.
E io non ho smesso di cercare.
Su @MilanoNera “La firma dell’assassino”, uno straordinario racconto inedito di Cocco&Magella!
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RT @GuandaEditore: Cocco&Magella hanno fatto un regalo ai lettori:
un racconto inedito su @MilanoNera!
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